Il Pisa Siamo Noi

Pisa – Pontedera : Mi Ricordo …

pisapontedera

Mi ricordo l’ultimo Pisa – Pontedera disputato in campionato all’Arena Garibaldi.

Mi ricordo l’1 a 1 con cui si concluse il match.

Mi ricordo il vantaggio granata di capitan Vettori ed il pareggio neroazzurro griffato Tabanelli.

Ma soprattutto mi ricordo mister Gattuso che abbandonò il campo per protesta nei confronti di un direttore di gara ai limiti della decenza calcistica.

Mi ricordo un gesto istintivo, di cuore, un qualcosa che negli anni molte volte ho pensato di fare pure io davanti ai soprusi perpetrati ai danni dei colori neroazzurri.

Mi ricordo un episodio comunque significativo di quello che era a tutti gli effetti il deus ex machina di quella stagione indimenticabile.

Mi ricordo la voglia di ribellarsi di fronte ad un abuso di potere.

Mi ricordo che anche il compianto Giuliano Fontani non rimase insensibile di fronte a tale episodio, tanto da dedicargli lo splendido articolo che potete leggere qua sotto.

Perché ogni occasione è buona per ricordare il mio amico Giuliano Fontani.

“Quando sento parlare Rino Gattuso quasi automaticamente mi gira in testa un vecchio proverbio calabrese: “A jumi cittu un ji a pescà”. Occorre la traduzione: Non ti fidare delle persone silenziose. Gennarino non è un fiume silenzioso. Anzi, spesso è un torrente in piena le cui acque limacciose travolgono tutto e fanno un rumore assordante. E’ stato così anche stavolta.

Dopo il pugno in cielo è arrivato il grande urlo. Un grido di ansia e smarrimento, come il quadro del grande pittore norvegese, che dall’anima arriva alle orecchie di tutti. Fatto è che chi conosce meglio i calabresi sa benissimo la passione che mettono nelle loro cose. Corrado Alvaro, che era di quella terra, diceva che mettono il loro patriottismo nelle cose più semplici, come la bontà dei loro frutti e dei loro vini. Guido Ceronetti, torinese, invece li descrive con le facce concentrate, tanto che ­ pur non pensando ­ sembrano una nazione di filosofi. Ho preso a prestito questi due grandi intellettuali per un identikit, psicologico e anche somatico, di Gennaro Gattuso. Perché nei volti, nella faccia, si riflette la realtà degli animi e senza queste avvertenze corri il rischio di non capire uno sguardo, una mezza frase. Anche la più diretta.

Gattuso, del resto, non ha bisogno di una grande narrativa. Ti guarda negli occhi, con un misto di sommesso rispetto e schietta franchezza: “Ma che sport è questo?” ha sibilato più volte in queste ultime settimane. E tu devi capire che lo smarrimento è pari solo all’indignazione e forse è meglio non obiettare perché ­lo dice lui ­il difetto tipico dei calabresi è di essere permalosi e io mi considero permaloso. E’ il senso dell’etica che lo accende, gli fa saltare con un balzo la barriera del politicamente corretto, della formula ipocrita e suadente del conformismo sciocco e anche un po’ servo. No, lui è fieramente permaloso, s’incazza e difende il suo lavoro, quello dei suoi ragazzi, dei collaboratori. Dal primo all’ultimo, come ama specificare, caso mai la gerarchia escludesse qualcuno.

Purtroppo, rispetto alle domande di Gattuso, non ci sono risposte facili. “Ma che sport è questo?” Nella domanda c’è una retorica accusatoria devastante. L’uomo, il campione, non riconosce nella Lega Pro il sistema­calcio. Lui ha giocato a livelli in cui il merito faceva premio di tutto. E’ la grande risorsa dello sport: per vincere sul ring come sul parquet di basket, sul campo di calcio o sulla pista di atletica, non puoi ricorrere alla raccomandazione del prete o dell’onorevole, al voto di scambio o alla bustarella. Sei solo, con il tuo talento, il tuo coraggio, la tua forza davanti agli avversari, al cronometro, all’asta da saltare con un balzo. Solo tu ti puoi spingere verso il cielo.

E’ chiaro che tutto questo deve avvenire nel rispetto di poche regole condivise. Niente doping, arbitraggi imparziali, nessuna camarilla nelle stanze dirigenziali. Il ragazzo venuto dalla Calabria, passato per la Scozia, la grande Milano, Palermo, la Svizzera, il campionato greco, ha fatto esperienza. Ne ha viste di tutti i colori, ha vinto campionati, scudetti, coppe con maglie prestigiose. Ha conoscicuto anche il dispiacere dell’esonero ma soprattutto non ha mai dimenticato la sua origine. E come disse in una vecchia intervista “essere calabresi vuole dire dare sempre l’anima, sudare su ogni pallone, gente che non si scorda da dove arriva ed è orgoglioso delle proprie radici“.

Gattuso ­ dice Lucchesi ­ è innamorato del suo lavoro, è innamorato del Pisa. Questa squadra gli è cresciuta in pancia, una sua creatura. La guida con il piglio del grande condottiero, le sue reazioni sono forti e consapevoli. Lui si mette in prima fila, fa scudo con il suo corpo e anche il suo nome alle lance avvelenate degli avversari. Quando vede attaccare ingiustamente i suoi ragazzi, lancia un urlo, forte, che devono sentire tutti. Dopo il pugno per ricacciare indietro i fantasmi, l’urlo della protesta, ma anche della carica e dell’incitamento alla riscossa. Ci sarà anche un prezzo da pagare, sotto forma di una squalifica scontata. Si difenderanno accusandolo di vittimismo e di complottismo, ma solo perché non sei affetto dalla sindrome di Stoccolma e non sorridi alle pugnalate che ti vengono inferte. Perché secondo i moralisti di questo calcio senza morale dovresti subire in silenzio e magari ringraziare, altrimenti dicono che sei un piagnucoloso.

Gattuso non ci sta e lo dice alla sua maniera: “Ho vinto molto, non sono un perdente e dunque non pecco di vittimismo“. Però… Un pugno sul tavolo e una domanda di sfida: “Ma Giulia’ ti sembra normale?

Vorrei sorridere, ma non ti arrabbiare.”

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